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Racconti - Dalla finestra
Dalla finestra
La ragazza si contorceva come un’ossessa. Capelli di rubino tagliati con una frangetta obliqua. Gli occhi rossi cerchiati di trucco nero. Urlava. Un corpetto e una minigonna lucidi cuciti addosso. Una seconda pelle. Si dimenava per terra e urlava. Che cavolo aveva da urlare, poi ? Forse era incazzata perché il suo ragazzo era venuto a prenderla con una spider invece che con la moto. Ma poi con quella minigonna inguinale, mi dici come avresti fatto a salire sulla moto, pupa ? Avresti fatto vedere il culo a tutto il paese. Siamo anche nel terzo millennio ma a tutto c’è un limite !
Paolo allungò la mano sul divano alla ricerca di qualcosa.
Che cagata ‘ste reti musicali per teen-ageer. Le immagini viaggiano al doppio della velocità.
Gli era bastato un quarto d’ora per uscirne tutto rincoglionito.O stava diventando semplicemente vecchio, pensò.
Paolo trovò il telecomando, lo prese e cambiò canale.
C’erano due facce di merda in giacca e cravatta. Litigavano e si accapigliavano su tutto lo scibile umano. Con il culo piombato su quelle poltrone parlavano, parlavano, parlavano.
Spense il televisore e si alzò.
Fece due passi verso il cesso. Poi ci ripensò. Tornò indietro e si avvicinò alla finestra.
Guardò fuori.
Diede uno sguardo al quartiere dormitorio dove abitava.
Palazzoni grandi, una via sporca e degli alberi imprigionati nell’asfalto. Bene.
La realtà sembrava ancora più uno schifo della finzione.
Sulla destra c’era un cane seguito da altri cinque di tutte le taglie. Forse era una cagna in calore. Sul serio. Lei davanti e i rognosi dietro a sbavare, spingersi e a mordersi le chiappe pulciose.
Cazzo, è sempre la stessa musica anche nel mondo canino ! E’ la fregna che muove il mondo !
Dalla parte opposta avanzavano due anziane signore.
Lui le squadrò dalla finestra. abito nero. maglione nero. cappotto nero fino ai polpacci. calze grige, stile grande freddo siberiano. scarpe basse. Dovevano essere due zitelle che andavano alla messa delle diciotto.
L’accendiamo ? Si, l’accendiamo.
Destino volle che uno dei cani, quello di altezza media, mentre gli altri litigavano riuscì a ingroppare la cagna. Raggiunta la postazione di comando iniziò a stantuffare. Uno, due. Uno, due. La bestia aveva la faccia di uno che stava facendo la cosa più normale del mondo. Probabilmente la stava facendo. Si guardava intorno e stantuffava, mentre il resto dei cani cominciava a fare un casino della malora.
Le due anziane si fecero da parte inorridite schiacciandosi contro un muro. Poi scapparono via blaterando.
Non le sentiva, ma già sapeva quello che stavano dicendo. “E’ uno schifo. Io pago le tasse e il comune lascia queste bestie in strada. Ormai sono loro i padroni della strada” . E giù stronzate simili.
- Ma andate a cagare brutte bigotte di merda !- Pensò sorridendo.
Le due befane si allontanarono allungando il passo. Probabilmente pensavano alla cagna e che sarebbero state volentieri al suo posto. Ma non lo dicevano. Lo pensavano e non lo dicevano, le befane. Camminavano verso la chiesa continuando a blaterare.
La chiesa.
Gli tornò alla mente quando era piccolo. Quando andava alla messa la domenica mattina. Il vestito buono e qualche spicciolo per il gelato in tasca. Era felice. Si toccava le monete in tasca. Per tutta la messa controllava che fossero in tasca. Poi il prete diceva l’omelia. Era grasso e aveva sempre una faccia paonazza, il prete. E durante la predica guardava le gambe delle parrocchiane, il prete. Uno sguardo al cielo e uno sguardo alla terra.
Poi passava il panierino delle offerte e lui sapeva che una moneta doveva andare nel cestino. Gliel’aveva detto la mamma. Lui ubbidiva sempre alla mamma. La prendeva con cura. La guardava e la lasciava cadere nel panierino delle offerte.
Era felice la domenica. Mille lire in tasca e la fila di lato nei capelli. Non andava a scuola la domenica. Era felice.
Il sole era morto già da un po’. Calava la notte. Fredda e puntuale come la morte.
Qualche luce cominciò ad accendersi dai palazzoni grigi di fronte. Un mezzo migliaio di famiglie. Bollette da pagare e i dolci la domenica a pranzo. Pensò a quanti stavano davanti al televisore, adesso. Quasi tutti a quell’ora. Ognuno imprigionato nella propria nicchia.
Che fregatura la casa ! Ti dicono che ne devi avere una . Che devi avere la sicurezza di un tetto sopra la testa. Che tutto può succedere ma almeno non vai a dormire sotto i ponti. E tu te la compri. Ti indebiti, magari per trent’anni E non sai che stai comprando la tua tomba. Quattro mura che ti seppelliranno per la vita. Che ti isoleranno dalla realtà. Dall’altra umanità. Dopo anni di lavaggio del cervello davanti alla tua bella tv, seduto nella tua bella casetta, ti convincono che la realtà e quella che si vede da quella maledetta scatola. Col culone a forma di divano e il telecomando in mano, sei libero di cambiare canale. Libero di decidere quale rete ti dovrà frollare il cervello.
Pensieri neri gli offuscavano il cervello. Da troppo tempo ormai. Forse era colpa della solitudine. Era colpa del fatto che non aveva una donna da tempo, ormai. Pensò che stava per impazzire. E che fra non molto avrebbe dato fuori di matto. Sarebbe sceso in pantofole e mutande e avrebbe fatto come quel cane. Forse avrebbe ingroppato il primo essere vivente che gli sarebbe capitato a tiro. Una di quelle due vecchie, forse. E la sera tutti i telegiornali avrebbero parlato di lui. Forse avrebbero fatto anche uno speciale in seconda serata. Uno di quegli speciali con lo psicologo in studio che parla e si passa le mani nei capelli.
Sorrise pensando alla scena di lui con mutande e pantofole attaccato alla vecchia befana. Magari lei si sarebbe innamorata. Magari.
All’improvviso sentì uno sparo, poi uno stridio di gomme. Vide nella strada un’auto sbandare e schiantarsi in un palo della luce mentre una moto scappava via. Il palo andò in terra fracassandosi con un rumore di ferro e vetri rotti. Ci fu un corto circuito. Fu un attimo e il quartiere piombò nel buio più totale e avvolgente, da far quasi mancare il respiro. Sforzò gli occhi per guardare nel buio. Nell’auto non si muoveva niente e piano piano cominciò a formarsi un gruppo di persone attorno alla macchina. Capì che era successo qualcosa all’autista.
Il silenzio fu rotto dalla sirena dell’ambulanza. Prima lontana, poi sempre più vicina. La luce del lampeggiante gli ferì gli occhi. Chiuse le palpebre. Allungò le mani al nastro della serranda e tirò giù.
Aveva visto già abbastanza.
Fece qualche passo e si lasciò cadere sulla poltrona. Prese il telecomando e accese il televisore. Un signore in smoking e farfallino parlava al telefono con qualcuno, mentre di fianco una signora piangeva emozionata e non sapeva quale pacco aprire. Attorno il pubblico rideva e tifava. L’uomo con la faccia di plastica ed il farfallino la esortava a scegliere e sbrigarsi, perchè non potevano aspettare tutta la serata. Doveva mandare la pubblicità !
The show must go on, pensò.
Fuori dalla sua finestra, coricato in un’auto, stava un uomo con una pallottola piantata in petto.
La gente fuori, dopo un po’, sarebbe andata via dalla strada. Ne avrebbe parlato per qualche giorno. E poi più nulla.
Sarebbe ritornata a lavorare, comprare e consumare. Avrebbe continuato a lamentarsi e guardare la televisione. A farsi sfruttare in fabbrica e pagare le rate del muto che aumentavano. Ad andare alla messa la domenica e scoparsi l’amante il lunedì. L’ostia e la droga. Il crocefisso e la pistola.
The show must go on.
Forse era già impazzito e non lo sapeva.
Forse tutti erano impazziti e solo lui lo sapeva.
Premiscelato
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