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I racconti di PREMISCELATO: LA GUERRA DI P
LA GUERRA DI P.
“Ho solo sangue e odio dentro, piccola.
Ma un giorno verrò a prenderti e non sarà in un giorno qualunque.
Muoverò verso di te quando la notte avrà divorato la luce
e la luna fuggita via.
Niente ci sarà a rischiarare le cime spoglie delle montagne. I grovigli di rifiuti delle città.
Nel buio, la mia anima si leverà dal sonno dove mi hanno inchiodato.
Non ci saranno più medicine o strizzacervelli a fermarmi.
Non ci saranno più porte e camice di forza a rinchiudermi.
Mi sveglierò alla fine del mondo e ti verrò a cercare.
Tra le case disabitate e le auto arrugginite ti troverò,
te lo prometto.
E nelle tenebre non avrò bisogno dei miei occhi perchè riconoscerò il tuo odore.
Lontano dallo sguardo della gente,
le tue unghie affonderanno nella mia carne
e io sarò finalmente libero. “
P. lesse quelle frasi tutte d’un fiato. Era seduto sulla tazza di un cesso di un esercizio pubblico.
Un poeta, pensò, mentre si sforzava di cagare. Un pazzo stitico sarà stato a scriverle. Di quelli che non riuscendo a cagare scrivono sulle pareti, mentre tra uno sforzo e un altro devono prendere tempo, altrimenti gli si gonfiano le emorroidi.
Neanche lui ci riusciva a farla, però. Sarà stato che da giorni mangiava solo pane duro. Sarà stato che non aveva più un cesso fisso dove farla in santa pace. Sarà che forse aveva una brutta malattia e presto sarebbe morto con la pancia gonfia.
Non lo sapeva. E non gli interessava più di tanto.
Ma era un mese che non lavorava. Di questo si che gli fregava. E anche tanto. Era un pensiero che gli si piantava in testa la mattina appena apriva gli occhi e che non lo abbandonava per tutta la giornata.
Durante tutte le sue notti insonni.
Il bagno dove si trovava era angusto.
Aveva messo dei tovagliolini lungo il bordo della tazza e uno dentro. Perchè il problema se faceva centro, era lo schizzo di ritorno.
Non era proprio una bella situazione la sua.
La luce del neon traballava. Per terra era un lago di acqua mista a piscio e la puzza era insopportabile.
E lui ancora non riusciva a farla e nemmeno riusciva a trovare uno straccio di lavoro in quella città del cazzo.
Dalla finestrella in alto scivolava dentro il freddo dell’inverno.
Poi sulle pareti ne vide scritta un altra.
“ Tutti pisciano per terra. Tu fai l’eroe : caga sul soffitto ! “.
Questo si che gli piaceva. Stile rapido e coinciso. Pungente. Praticamente un ermetico dello sciacquone.
- Papà sai cosa ho chiesto per le feste a Babbo Natale ?
- No. Cosa hai chiesto ?
- Voglio Ciccio Bello bua, ma la mamma non vuole.
- Ciccio Bello che ... ?
- Ciccio Bello bua. Piange e ha la febbre. Io poi lo devo curare con le medicine.
- E tu sei la dottoressa ?
- Si.
Era un mese che P. non vedeva sua figlia. Da quando era andato al nord a cercare lavoro.
Ed era due giorni che non aveva neanche i soldi per telefonarla.
“... fai l’eroe...”. era scritto sul muro.
Dalla tazza del cesso sentiva i rumori provenienti dal bar. Le chiacchiere di qualche cliente e la radio che vomitava le notizie della sera.
Non lo sono mai stato un eroe, bimba mia. Sono solo un fallito.
Si nettò il culo. Si alzò e tirò lo sciacquone.
Ma quel bambolotto moribondo lo avrai. Fosse l’ultima cosa che faccio.
Aprì la porta del cesso e impugnò la pistola finta che aveva nel giubbotto.
A destra c’era il bancone del bar con la cassa. A sinistra un tavolo dove erano seduti due ragazzi. In fondo l’uscita.
Le sei di un pomeriggio di dicembre. L’orario giusto per la sua prima rapina.
Papà, Babbo Natale me lo porta Ciccio Bello?
- Cosa le servo, signore ? – Disse Ciccio Bello alla cassa.
“...fai l’eroe..”.
Cacciò la pistola e la mise sotto il grugno del barista.
- Dammi la cassa, stronzo o ti sparo in bocca - Lo disse con una voce che non gli sembrò la sua.
Il barista rimase con la bocca aperta e con la mano destra, aprì la cassa senza dire una parola.
Lentamente, con le sue mani paffute, gli mise l’incasso in mano e poi alzò le braccia.
Lentamente.
P. mise i soldi in tasca senza levare lo sguardo dagli occhi del barista.
Poi commise l’errore del principiante. Si voltò di scatto e scappò verso l’uscita.
Uno sparo ruppe il silenzio di quella fredda serata di fine anno.
P. cadde a terra sull’uscio del locale.
Riverso con la schiena al suolo, riuscì a vedere il cielo grigio di dicembre imprigionato tra i palazzoni della città.
Dall’alto, stampato su di un cartellone pubblicitario, Babbo Natale lo guardava ridendo.
“Papà sai cosa ho chiesto per le feste...”
Steso su quel marciapiede, P. pensò che quella sera avrebbe fatto meglio a rimanerci chiuso in quel cesso puzzolente. Magari per tutta la notte. O per tutta la vita.
Perchè la sua di vita era diventata uno schifo.
Era tutto uno schifo. Compreso le feste, gli addobbi e le vetrine piene dei negozi.
Girò gli occhi guardando ancora una volta il cielo come a cercare qualcosa. Forse sperando di vedere la slitta tirata dalle renne che veniva a salvarlo.
Ma purtroppo Babbo Natale non esisteva. Era una fottuta invenzione di qualche bastardo. Qualche bastardo che li teneva tutti stretti con le mani per i coglioni.
Babbo Natale e il suo culone rosso era un’invenzione del governo. Dei banchieri usurai e di quei fottuti venditori di lattine, pensò.
Il dolore non riusciva a fargli prendere aria. E si sentiva un bruciore forte come il fuoco divampargli dentro ad ogni respiro.
Chiuse gli occhi aspettando di riaprirli all’inferno. O peggio, ancora vivo in un ospedale.
Illuminato dalle luci intermittenti delle feste, il marciapiede cominciò a macchiarsi di rosso.
“Ho solo sangue e odio dentro, piccola...”
Premiscelato
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