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REPRESSIONE E INTERNAMENTO AI TEMPI DELLA CRISI
Nel silenzio assordante che caratterizza la fase politica attuale dell’area vesuviana - luogo di
un’aspra battaglia di resistenza che ha visto confrontarsi, muso contro muso, da un lato una
popolazione che ha cercato (e cerca) di difendere la propria esistenza e dall’altro uno stato (con
l’intero apparato istituzionale) che con protervia e arroganza militare ha imposto scelte devastanti in
merito alla reale esigibilità di diritti fondamentali per una vita dignitosa - la mannaia repressiva, imperterrita, sferra i suoi colpi.
Era il 24 ottobre del 2010 quando i sindaci dei paesi vesuviani, facendosi portavoce di una
popolazione che mai hanno rappresentato, firmavano “l’accordo truffa” che prolungava l’utilizzo di
cava Sari a tempo indeterminato – il buco, per chi non lo sapesse, è tutt’ora sfruttato e continua ad
ingoiare rifiuti di ogni tipo nonostante sia strapieno da un pezzo e le falde acquifere sottostanti
compromesse - sminuendo così i sacrifici di chi aveva lottato affinché si profilasse una nuova
modalità di gestione dell’intero sistema rifiuti. Da quando gli accecanti fari mediatici si sono spenti
su quello che è stato il più radicale conflitto sociale determinatosi in Italia negli ultimi anni, l’azione
repressiva non ha avuto soste. Intimidazioni, denunce, arresti, avvisi di garanzia sono stati
all’ordine del giorno e sono, parimenti, passati inosservati agli occhi di tutti, a parte i direttamente
coinvolti. Si è profilata una chiara volontà politica volta a stroncare e silenziare tutti coloro che
avevano attivamente partecipato sia alla propagazione del conflitto sia alla sua realizzazione in
concreto. Amministratori comunali, provinciali, regionali, unitamente a quelle che vengono
chiamate forze dell’ ordine, lavorando sinergicamente e con scientificità, sono riusciti a sbattere in
prima pagina, come fossero dei mostri, coloro che hanno difeso con i denti quel poco che ancora
consideravano patrimonio pubblico. Ma i mostri sono loro!
Oggi la situazione è peggiore di quella di ieri: mentre sia i sindaci che i vari comitati-partito (vedi
sedicente Rete) tacciono e gioiscono cercando di accaparrarsi il merito delle inesistenti quanto
fantomatiche vittorie, alcuni partecipanti alla lotta hanno ancora l’obbligo di firma in caserma,
scontano processi interminabili, arresti inopinati o, notizia recente, ricevono avvisi di garanzia che li
accusano di aver commesso pesanti reati. Ormai è risaputo che le leggi hanno tutte un aspetto di
eccezionalità, di aggravio contro una data categoria di persone. Ciò deve indurre ad una riflessione
collettiva, innanzitutto laddove tende a massificarsi presenza sociale e produzione di conflitto. E’
ora che le accuse vengano restituite al mittente. E’ ora che cominci a pagare chi realmente deve
pagare!
E’, in questo frangente storico caratterizzato da una profonda crisi del capitale, ancor più evidente
come le scelte politiche assumano un carattere antiproletario: da un lato un incremento delle misure
repressive generali, un rafforzamento degli strumenti polizieschi, una militarizzazione sempre più
estesa dei territori, l’inasprimento delle sanzioni anti-sciopero e anti-manifestazioni, l’estensione di
campagne di criminalizzazione e la pratica dell’incriminazione delle lotte di settori irriducibiliincompatibili
allo status quo, l’azione continua volta ad assorbire e svilire l’opposizione sociale di
una nuova soggettività di classe, dall’altro si cerca di dare ossigeno, per legittimare l’azione dello
stato, ad un criminale canale politico-rappresentativo, incrementando l’azione negoziale svolta dalle
parti sociali (non solo sindacali) con l’unico intento di ammortizzare la crisi di governabilità
generata dalle scelte politico-economiche fatte da una classe dominante sempre più schiacciata su
dinamiche neo-corporative.
La stessa condizione repressiva viene vissuta anche dai centouno migranti che stazionano da
qualche mese sul nostro territorio (chi ci sta guadagnando?); dai tunisini (quelli della primavera
magrebina) fino a ieri detenuti nel CIE di S. M. Capua Vetere, un lager dove la repressione era
continua ed i migranti, stipati come in un pollaio, hanno bevuto candeggina o inghiottito pezzi di
vetro per protestare e denunciare una condizione illegittima di internamento. Siamo stipati anche
noi in un pollaio: un territorio parcellizzato, atomizzato e iper-sorvegliato da reti impalpabili
(virtuali e non) che è funzionale al controllo di qualsiasi espressione di dissenso e di rivendicazione
di bisogni e desideri. Ci abbagliano con spiragli di finta democrazia, ci fanno credere che siamo
ancora liberi di decidere. Un referendum sui beni comuni, sul nucleare, sul legittimo impedimento.
Ci dicono che se non verrà raggiunto il quorum saremo fottuti. Forse non lo siamo già? Lo saremo
un tantino in più? E’ in atto, già da tempo, una contrattazione sui beni comuni, su ciò che ci
appartiene, non per diritto, ma per necessità. Tutto ciò che è pubblico è divenuto privato (tra poco
ci venderanno anche l’aria come, d’altronde, già ci vendono l’acqua). Come possono venire a dirci
che abbiamo ancora la possibilità di essere uguali davanti alla legge se è proprio “la legge” che
reprime e reprimerà sempre le lotte sociali?
E’ urgente, a nostro modo di vedere, costruire una grande assemblea che affronti tutti i temi inevasi
che ancora riguardano la possibilità di poter modificare in positivo le condizioni di vita dei
vesuviani e produrre politiche autonome che contrastino con forza l’attuale sistema di gestione di
potere.
Liberare Spazi. Costruire Conflitto. Autodeterminare la propria esistenza!
MOVIMENTO DIFESA DEL TERRITORIO AREA VESUVIANA
COLLETTIVO AREA VESUVIANA
EX-SPAZIO AUTONOMO OCCUPATO ZONA ROSSA
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